Come i trattamenti creano nuovi tipi di cardiopatici
La cardiologia è una delle discipline che maggiormente ha usufruito dell’enorme sviluppo tecnologico con possibilità di miglioramento significativo della capacità di diagnosi e trattamento, presidi tuttavia capaci solo di eliminare o ridurre un sintomo, come l’angina del coronaropatico o la dispnea del valvulopatico o la cianosi del cardiopatico congenito, migliorandone la qualità di vita, o di prolungare la sopravvivenza, ma non portano a guarigione.
Si è venuta a creare pertanto una nuova popolazione di cardiopatici con storie cliniche non ancora completamente definite e con una domanda di assistenza complessa, che in ogni caso necessita di un follow-up clinico-strumentale programmato. La introduzione di farmaci per il controllo di ipertensione, diabete ed insufficienza cardiaca oltre a ridurre gli eventi acuti cerebrovascolari, ne ha ridotto, quando presenti, sostanzialmente la mortalità, prolungando da una parte la sopravvivenza fino ad età avanzate, incrementando così la popolazione dei pazienti con insufficienza cardiaca cronica.
Con un tasso di riospedalizzazione significativamente più alto, soprattutto quando questi pazienti non sono seguiti in strutture cardiologiche dedicate
(CHF=Congestive Heart Failure)
La introduzione del monitoraggio elettrico ed emodinamico e la diffusione della rivascolarizzazione precoce mediante fibrinolitici (sostanze che sciolgono il trombo in caso di occlusione di una coronaria nell’infarto miocardico acuto) e/o angioplastica primaria (dilatazione di una coronaria con un palloncino e impianto contemporaneo di un supporto metallico, stent) hanno ridotto in maniera significata la mortalità degli eventi miocardici acuti, sia negli uomini che nelle donne.; soprattutto nei pazienti dopo i 65 anni hanno aumentato i casi di insufficienza cardiaca causa della tardiva mortalità
Schema: su 7733 pazienti con infarto del miocardio (MI),5871 svilupperanno nel tempo un’insufficienza cardiaca (Heart Failure) e sarà causa di morte in 2316 di loro; solo 1091 non presenteranno complicanze severe dopo un infarto del miocardio.
Figura: andamento nel tempo dal 1994 al 1999 della mortalità (colonne nere) ed insufficienza cardiaca (colonne rosse) intraospedaliere. Le linee continue indicano mortalità e insufficienza cardiaca complessive che si sviluppano in 5 anni in pazienti con infarto miocardico.
E la cardiologia geriatrica sta occupando sempre più spazio non solo riguardo alla domanda di assistenza per lo scompenso cardiaco, ma anche a quella di rivascolarizzazione miocardica in conseguenza del diffondersi dell’angioplastica coronarica, ed ultimamente dell’impianto di protesi per via percutanea. Tutto ciò comporta un’attenta verifica di tipo clinico (bilancio costi/benefici) ed una riflessione più specificamente etica sulle indicazioni ai trattamenti estremi.
Ma è soprattutto nell’ambito delle cardiopatie congenite che i trattamenti hanno cambiato in maniera impressionante lo scenario epidemiologico.
La prevalenza alla nascita di tutte le cardiopatie congenite è stimata intorno all’8 per mille di nati vivi: prima dell’avvento e dell’affermarsi della cardiochirurgia meno del 20 % dei bambini nati con una cardiopatia raggiungevano l’età adulta e nella maggior parte dei casi si trattava di cardiopatie semplici e solo raramente di cardiopatie complesse che spontaneamente avevano raggiunto un loro equilibrio tra alterazioni strutturali, funzione ventricolare e circolo polmonare e spesso le storie naturali di questi pazienti si concludevano più per le conseguenze ematologiche che per le complicanze cardiache. Se esaminiamo i dati compilati dall’Office of Population Consensus and Surveys for England and Wales che riportano le morti di pazienti con cardiopatia congenita nei vari gruppi di età, si osserva come nel 1958 le morti erano più frequenti nell’infanzia mentre dal 1986 queste diventano più frequenti sopra i 20 anni. Questa inversione di tendenza che nel tempo è diventata sempre più evidente è conseguenza dei notevoli successi della correzione chirurgica dei difetti congeniti di cuore e della capacità del chirurgo di intervenire molto precocemente nei primi mesi se non nelle prime settimane di vita. Attualmente si calcola che in Nord-America ed Europa vi siano oltre un milione e mezzo di pazienti adulti con cardiopatia congenita la gran parte dei quali ha avuto almeno un intervento di correzione chirurgica. Questi pazienti costituiscono quella che Jane Somerville, eminente cardiologa inglese, chiama la nuova comunità medica dei GUCH (Grown Up Congenital Heart) patients, che nonostante la correzione radicale della malformazione continuano ad aver necessità di assistenza medica e talvolta chirurgica,
Con il prolungarsi del periodo di tempo dopo l’intervento di correzione cresce il numero di pazienti che presentano problemi clinici che ne influenzano la morbilità e la sopravvivenza. Ciò comporta una crescente domanda di assistenza che in assenza di una preparazione specifica è difficile da soddisfare. Questi pazienti hanno difficoltà a vivere la “normalità” fornitagli dalla cardiochirurgia, dal momento che le loro aspirazioni si scontrano con una realtà che non è attrezzata a comprendere nella giusta maniera i loro bisogni che non sono soltanto di ordine clinico, ma anche medico-legale (idoneità fisica ad attività sportiva o lavorativa), psicologico-relazionale (ansia, depressione, alterazioni cognitive, famiglia, gravidanza, genitorialità), sociale con particolare riferimento all’inserimento nel mondo del lavoro, previdenziali.
Una nuova identità ad antichi incubi
Lo sviluppo della medicina molecolare ed in particolare la sempre maggiore possibilità di utilizzare le indagini genetiche hanno negli ultimi venti anni chiarito patologie che spesso venivano scoperte in presenza di eventi gravi se non fatali. Sono cardiopatie che spesso non presentano segni clinici evidenti, le cui alterazioni strutturali risiedono in microscopiche porzioni di strutture complesse; spesso si tratta di proteine alterate, perché prodotte da geni che hanno subito mutazioni: modificazioni infinitesimali, capaci però di produrre gravi conseguenze strutturali a carico delle cellule del cuore (miociti). Sono i pazienti con cardiomiopatie geneticamente determinate, eredo-familiari, caratterizzate da un elevato rischio aritmico che può compromettere la stessa sopravvivenza. Sono pazienti che devono essere individuati e inseriti in un programma di follow-up programmato; sono notevolmente migliorate le capacità diagnostiche ,soprattutto non invasive che permettono di quantificare il rischio di eventi avversi (stratificazione del rischio) e di adottare le misure di prevenzione più adatte per quell’entità di rischio, dalla terapia farmacologica all’impianto di protesi salvavita come il defibrillatore. Prevenzione e terapia devono essere personalizzate, per consentire di avere, in sicurezza, una qualità di vita che non venga limitata da una eccessiva medicalizzazione.
È cambiato lo scenario, dal momento che sono cambiati i protagonisti: la cardiopatia, il cardiopatico, il cardiologo; necessariamente deve cambiare anche la modalità di assistenza e considerata la complessità delle situazioni cliniche e dei vari fattori che contribuiscono a determinarla, risulta indispensabile un intervento interdisciplinare, capace di avvalersi di competenze anche non prettamente mediche ma che si rivolgono all’ambiente esterno.